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Prestazioni sessuali dai detenuti. 3 anni e 10 mesi a ex cappellano

Quello svolto dai cappellani nelle carceri italiane è «un servizio pubblico», la cui natura «è conclamata dalla normativa pubblicistica che lo governa, dall’assenza dei poteri tipici della funzione pubblica, dall’attività intellettiva e non meramente applicativa o esecutiva che lo caratterizza».

Lo sottolinea la Cassazione, confermando la condanna a 3 anni e 10 mesi inflitta dalla Corte d’appello di Genova a un ex cappellano, Giuseppe Stroppiana, all’epoca dei fatti in servizio nel penitenziario di Sanremo, ritenuto responsabile di concussione per aver indotto, tra il 1988 e il 1994, alcuni detenuti a concedergli prestazioni di natura sessuale, con la prospettiva di poter incidere sulla loro posizione giudiziaria.
Contro tale verdetto, l’imputato si era rivolto ai giudici di piazza Cavour, ritenendo insufficiente la motivazione inerente la sussistenza del reato di concussione. La Suprema Corte (sesta sezione penale, sentenza n.12) ha rigettato il ricorso del religioso: «il cappellano non svolge una funzione pubblica legislativa o giudiziaria - sottolineano gli `ermellinì - né, dopo il ridimensionamento dei compiti originariamente attribuitigli, una funzione amministrativa, intesa come attività caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi, sicchè non riveste la qualità di pubblico ufficiale”». Però, si legge ancora nella sentenza, «avuto riguardo ai compiti che la legge attualmente gli assegna e che sono funzionali all’interesse pubblico perseguito dallo Stato nel trattamento delle persone condannate o internate, il cappellano sicuramente svolge un servizio pubblico».

La riforma carceraria del 1975, ricordano i giudici di ´Palazzaccio, «tradendo in parte i propositi di laicizzazione della vita pubblica, continua a prevedere che il trattamento del condannato e dell’internato sia svolto avvalendosi anche `della religione e a tal fine, mantiene il servizio di assistenza cattolica come servizio stabile e interno alla struttura penitenziaria”.
In ogni caso, rileva la Cassazione, «non può sottacersi che, nella prospettiva di affrancarsi, con una qualche timidezza, da tendenze confessionali», la riforma carceraria «ha comunque rimosso il cappellano dal Consiglio di disciplina e dalla quasi totalità delle funzioni amministrative che il regolamento precedente gli conferiva». Il cappellano infatti è stato «privato anche del potere di controllo sulla corrispondenza, del governo della biblioteca, del potere di redigere i rapporti per l’osservazione del detenuto. I suoi compiti - conclude la Suprema Corte - di norma sono essenzialmente di natura religiosa e consistono nell’organizzare e presiedere alle pratiche di culto e nell’istruire e assistere i detenuti».

Per la Cassazione i riti Vudù sono malefici

I riti vudu', lungi dall'essere di natura religiosa, talvolta sono malefici estranianti che terrorizzano la persona che ne e' oggetto, soggiogandone irreversibilmente la volonta'.

Il giudizio negativo su tali riti "e' un dato di comune esperienza, acquisito al bagaglio culturale di ogni persona di media istruzione. Infatti, la forma tipica di esperienza religiosa vudu' e' la possessione, l'invasamanento e le cerimonie di iniziazione si accompagnano ai terribili riti di magia nera, come 'l'invio dei morti' e la trasformazione dell'anima di un defunto in 'morto vivente' (o zombi).
Sulla base di queste considerazioni, la Cassazione ha confermato le condanne per associazione per delinquere, sfruttamento della prostituzione, introduzione illegale nel territorio dello Stato, riduzione e mantenimento in schiavitu' nei confronti di quattro persone che avevano costituito un'associzone finalizzata alla tratta di donne nigeriane avviate alla prostituzione nel circondario di Cagliari. Le stesse, ricostruisce la sentenza, venivano assoggettate ed intimorite con riti vudu' prima della partenza, ripetuti all'occorrenza in Italia. Inutilmente i quattro imputati, gia' condannati dalla Corte d'assise d'appello di Cagliari il 20 dicembre del 2007, hanno tentato di difendersi in Cassazione, lamentando tra l'altro l'insussistenza della riduzione in schiavitu' visto che i riti vudu' non sono frutto di magia nera, bensi' manifestazione di una religione articolata in cerimonie regolarmente officiate e amministati da una chiesa organizzata che provvede a somministrare il realtivo insegnamento nelle scuole.
- Cassazione Penale, Sezione V, Sentenza n. 48350/2008